Spinning Politics, rivista on line che si occupa di comunicazione e marketing politico, pubblica un’intervista che abbiamo fatto qualche giorno fa. A cura di Luca Checola e Daniela Bavuso.
La campagna elettorale tra targetizzazione dei messaggi su base territoriale, utilizzo integrato di media tradizionali e social media e ascolto. Ecco gli ingredienti dello straordinario successo personale della campagna dell’esponente del Pd Roberto Placido, vicepresidente del Consiglio Regionale piemontese, che Spinning Politics ha incontrato per voi. Un punto di vista unconventional, che invoca più coraggio nella comunicazione elettorale e nell’informazione in generale.
Nonostante lo straordinario risultato personale il centrosinistra è stato sconfitto alle scorse regionali. Secondo lei, sono stati commessi errori dal punto di vista della strategia comunicativa o si è persa qualche occasione nel passaggio di determinati messaggi?
La vittoria personale lascia l’amaro in bocca e per spiegarlo faccio l’esempio calcistico: la soddisfazione di un buon risultato personale non cancella l’amarezza della sconfitta della squadra. Ci sono stati senz’altro degli errori nella comunicazione, forse maggiormente per quanto riguarda la campagna della candidata alla presidenza Bresso: la campagna non ha tenuto sufficientemente conto della realtà delle altre province piemontesi, che sono una cosa diversa dalla realtà di Torino e provincia sia in termini di risultati elettorali che in termini di organizzazione sociale, reddito, tradizione, storia; non è vero che, come dicono alcuni, c’è Torino e provincia e poi “l’altro Piemonte”. Semplicemente esistono sul territorio realtà completamente diverse. Uno dei problemi è stato quello di non essere riusciti a declinare uno slogan adattandolo alle varie realtà. La campagna ombrello è andata piuttosto bene, poi però sarebbe stato necessario declinare la comunicazione … cosa non facile. Questo è uno dei limiti della comunicazione, d’altronde è nel fare tante cose che capita che alcune non riescano molto bene.
Cosa ha caratterizzato la comunicazione politica del PD piemontese durante la scorsa campagna elettorale? Come si è articolata la battaglia con Roberto Cota e quali argomenti hanno maggiormente contribuito alla vittoria dell’avversario politico?
Per qualche verso è stata una questione di risorse: il Pd non aveva grandi risorse, la maggior parte di esse sono state usate per la campagna del presidente e gestite dal suo staff. Il Pd è stato solo un supporto tecnico economico ma non nelle decisioni.
Il Pd ha fatto slogan che attaccavano e si contrapponevano ad alcuni slogan della Lega, ad esempio “tute blu, non camicie verdi”; slogan che sono stati parte di una campagna coraggiosa che ha portato consenso e critiche al tempo stesso. Anche in questo caso una campagna molto efficace per alcune delle province e non efficace per le altre.
La campagna ha avuto però il pregio di essere coraggiosa, e questo è positivo se si considera che spesso in politica manca il coraggio nella comunicazione.
Che rapporto esiste secondo lei tra la strategia politica e quella comunicativa, ovvero, a che punto le due si dividono? Quale ha pesato maggiormente nella sconfitta in Piemonte?
Si sovrappongono, ma la strategia comunicativa è funzionale alla strategia politica e non il contrario.
Un partito può, ad esempio, anche decidere una strategia comunicativa che può sembrare folle, ma si tratta poi di capire qual è la strategia politica che sottende ad essa. Personalmente ho fatto alcune campagne molto nette e coraggiose, che avevano alla base una chiara strategia politica. Anche una delle mie ultime campagne di comunicazione ha visto una chiara strategia politica che si è tradotta, ad esempio, nella quasi inesistenza della classica campagna di comunicazione esterna – cosa che ha creato anche qualche tentennamento da parte delle persone più vicine a me -; in quel caso c’era una strategia più articolata ma meno visibile che ha dato infine i suoi frutti. Naturalmente, come in tutte le campagne elettorali, un risultato non positivo sarebbe stato indice di una campagna condotta in modo sbagliato… Prendiamo l’ultima campagna elettorale: da una parte si è registrata strategia di bassissimo profilo e soprattutto una bagarre di grandi proporzioni per quanto riguarda, ad esempio, i manifesti elettorali. Capita, come è successo qui in Piemonte, che campagne elettorali che sfruttano enormi quantità di risorse possono risultare fallimentari nel risultato e causa di sprechi significativi.
Personalmente avevo pensato di uscire con una campagna senza volto sui manifesti – cosa che mi è stata sconsigliata – e solo con il cognome, il “brand” principale, proprio perché non volevo aggiungere a tutti i volti presenti sugli altri manifesti anche il mio; in seguito ho scelto una foto del mio viso ritratto in una posa espressiva seria, non sorridente, benché il sorriso sia uno degli aspetti positivi del mio volto e che mi caratterizza di più; la scelta risponde a questo ragionamento: in questa situazione economica drammatica “non c’è mica da ridere” e un cittadino che ha perso il lavoro, che rischia di perderlo, che magari ha il figlio disoccupato potrebbe guardare il manifesto e dirsi che non c’è nulla da sorridere, avvertendo che è più semplice sorridere per chi ha una posizione privilegiata rispetto alla propria.
Anche l’attenzione al colore utilizzato per i manifesti, per il sito e durante tutta la campagna è stato per me una scelta forte: sono stato l’unico candidato ad aver usato il rosso, colore che contraddistingue la mia storia politica, la mia appartenenza, l’idea politica e il contenuto: insomma, è il mio colore politico.
Il claim utilizzato era collegato all’azione politica e faceva poco riferimento a ciò che può essere percepito come l’ennesima promessa. Ho giudicato perdente e un po’ presuntuosa la scelta di chi ha scelto di affiggere manifesti che riportavano solo nome cognome e semmai il volto.
La strategia comunicativa ha dato ampio spazio alla personalizzazione.
Quanto spazio è stato dato durante la scorsa campagna elettorale alla comunicazione ed all’informazione attraverso i social media?
Personalmente ne ho fatto largo uso, io utilizzo tutto ciò che c’è di nuovo, sono molto curioso; deve però essere chiaro che i social media sono complementari e aggiuntivi, nella comunicazione, rispetto ai media tradizionali e tali resteranno. I social media esprimono un modo di comunicare ed una società che sta cambiando. Un dessert buono rende un pranzo indimenticabile, ma non devono mancare il primo e il secondo: ad oggi i social media e i social network non sono ancora il primo e il secondo.
“Dillo a Placido”: informare, creare consapevolezza e trasparenza e incentivare la vicinanza con i problemi del cittadino-elettore. C’è legame tra questa esperienza e il risultato elettorale personale, e come si è inserita questa modalità di informazione e comunicazione nella campagna elettorale?
“Dillo a Placido” è stata proprio una bella esperienza. Per tre mesi ho condotto questa trasmissione che non parla di politica, non ha copione prestabilito, ma mette a disposizione degli spazi dove ognuno porta i propri argomenti. La trasmissione non prevede interventi telefonici, a volte in grado di monopolizzare gli spazi. Si tratta di un’esperienza nata un po’ per caso ed è a metà tra “1/2 Ora” dell’Annunziata e “Stranamore”: come “1/2 Ora” è un programma di informazione, come “Stranamore” c’è un grande furgone itinerante con il mio volto, il logo della tv e il titolo della trasmissione. Gli inviti a seguire la trasmissione arrivavano a tutti e venivano distribuiti nella località dove sarebbe arrivato il furgone con anticipo, così da invitare tutti a prendere parte alla fase preparatoria e a creare aspettativa e passaparola: arriva Placido! Dillo a Placido!
Gli argomenti trattati vanno da quello della sicurezza e ordine pubblico, alla sanità, il lavoro, la casa, i trasporti, insomma, argomenti quotidiani e concreti.
Che abbia funzionato, beh, lo dice un episodio simpatico che le racconto: un mese o due dopo che la trasmissione si è interrotta per dar spazio alla campagna elettorale, il Comune di Torino ha fatto una campagna per promuovere le affissioni comunali rivolta alle aziende private e la campagna, graficamente non eccezionale, riportava il claim “Dillo a tutti”: vedendola in molti si sono ricordati della mia trasmissione e hanno pensato che avesse preso di nuovo il via. Da questo desumo che dal punto di vista comunicativo la trasmissione ha fatto centro.
Cosa pensa di quello che sta accadendo in questi giorni al sistema di informazione pubblico e privato, e come pensa questo possa incidere sulla comunicazione delle minoranze politiche?
Un paese è democratico quando l’informazione è libera. Se la stampa non lo è completamente questo è segno di non democraticità. Ognuno deve essere libero di scrivere quello che vuole, se interviene un contenzioso ognuno ha delle responsabilità e chi sbaglia paga, ma il controllo non può avvenire a monte: questo appartiene ai regimi. Un’informazione genuflessa e orientata a magnificare l’opera di determinate personalità non giova alla democrazia. Se posso trovare un difetto della stampa italiana è proprio che questa è fin troppo poco irriverente e troppo poco irriguardosa verso la politica, a differenza della stampa anglosassone: in quel caso i giornalisti sono duri e vogliono delle risposte dal politico. Il giornalista deve chiedere al politico i perché e i come mai.
Intervista a cura di Daniela Bavuso e Luca Checola